lunedì 6 settembre 2021

Padre

 


 

Chi ha avuto bambini può rievocare il ricordo di aver lanciato in aria il proprio figlio e con le braccia tese verso di lui era pronto subito a riprenderlo, e chi di noi non ricorda quel sorriso carico di fiducia del bimbo divertito al gioco del Padre. Egli rappresenta per la propria prode la roccia, la sicura difesa, il rifugio ma, crescendo questa immagine col tempo cambia , forse a causa di traumi, magari a causa di un padre Padrone, un padre violento, o a causa della separazione dei genitori, ma queste o tante altre esperienze hanno portato i figli ad allontanarsi dalla genitorialità ed ovviamente in tutte le esperienze di cui si parla di familiari mentalmente riaffiorano i ricordi e si riaccende quel rancore , molti sono coloro che preferiscono fare a meno di loro pur di non fare i conti anche col proprio vissuto. E’ difficile fidarsi di un Padre celeste se nel nostro passato abbiamo queste esperienza di ferita ancora non guarita, allora forse dovremmo un po’ metterci con umiltà alla ricerca della giusta immagine di cio’ che si intende col termine

Padre”

ed accettare che il padre naturale sbaglia perché non è perfetto nell’amore, ma che Dio Padre è l’unico capace di amarci di un amore totale, capace di superare ogni idolo dell’Immagine, dei soldi, del potere, un amore mai paragonabile a quello umano. Un Dio- Padre che ci ha amati totalmente da accettare anche 5480 colpi di frusta, percosse ed è morto in croce per no la nostra libertà. Un Padre che ci ha creati come a lui piaceva, e che conosce i nostri pregi e difetti perché così ci ha sognati, ci ha voluti, e che da risorto ci segue, scommette su noi e interviene ancora oggi, vuole che lo mettiamo al primo posto perché possiamo essere felici, è un Dio attento che sa’ anche quanti sono i capelli del nostro capo e ci promette di prendersi cura di noi anche se nostra madre si dovesse dimenticare.

 Nell’antichità il termine Padre era usato nella religione indiane per indicare il cielo, e la madre era indicata come sinonimo di terra. Platone invece sosteneva che il termine Padre, si intendeva ogni fonte di bene, per cui il padre era sinonimo di fecondità e bontà. Noi crediamo in un Dio che opera, che agisce nella vita dei suoi figli e che continua ancora oggi a rivelarsi se solo viene accolto, chi Lo accetta ha la certezza di cio’ che crede perché alla fede viene incontro la ragione anche se non puo’ essere compreso tutto.

Per conoscere Dio è necessario percorrere tre vie

 1. la via del cuore raggiungibile con la contemplazione per cui io sento,

 2. la via della ragione per cui poter dire io so’ e

 3. la via della fede per cui poter dire io credo.

 La fede che mi induce a camminare e a conoscere questo Padre che mi è rivelato dalla Bibbia, dall’esperienza di altri attraverso la stoltezza della sola parola In cielo abbiamo un padre che ci ama, e che attraverso Gesù ha strappato il debito tra Dio e l’umanità dandoci l’ingresso della salvezza Eterna e attraverso di lui possiamo rivolgerci a Dio chiamandolo Abba, papino, possiamo accoglierlo, cercarlo, chiamarlo, relazionarci a lui. Se lo accettiamo come Padre entrambi abbiamo acquisito un’identità, se accetto che sia mio Padre, obbedirò solo alla Tua volontà e non sarò alla merce’ delle opinioni degli altri e nulla più mi accuserà, sarai mio padre in vita e nella morte, se tu sei il mio centro vitale, cambierò modo di pormi ed anziché chiedermi il perché dirò tu sai. Potrò chiamarti Padre nostro ed avere una comunità di fratelli, non attribuirò più al me stesso i meriti ma riconoscerò che sei tu che permetti che io li abbia, con dacci il nostro pane quotidiano mi affiderò con coraggio alle avversità, la mia giornata non sarà un caso ma una continua segnaletica del tuo amore verso la direzione che vuoi che io faccia. Non avrò paura di ciò che accadrà perché sono certo che provvederai a me qualsiasi cosa accada, qualsiasi calamità o avversità saremo insieme perché la tua sapienza mi aiuterà a trasformare il male per me in bene.

Sarò tuo figlio, perché tu mi hai dato il dono della vita, in te solo conosco la verità, il dono dell’amore autentico, il dono della casa, quel rifugio, quella intimità, quella stabilità , quella dimora eterna, in ogni momento posso andare nell’altra riva e dire Padre mio, Dio mio, perché ti sei rivelato a me come al popolo di Israele e attraverso la bibbia ognuno di noi può conoscersi e rivedere in se stesso un Giacobbe che attraverso la dura lotta notturna diventa Israele – Un Dio che si identifica camminando con noi, seguendoci allora, come oggi, con rispetto, discrezione e benevolenza, che usa fatti concreti, e attraverso Abramo, Mose’ ci rivela che il suo nome e’ Javhe .

Jahve significa Io sono colui che è cioè colui che esiste, l’essere creatore, cioè colui che dona l’esistenza alle creature, L’unico degno di fede e obbedienza, l’unico capace di ascoltarti, di esserci sempre disponibile, sempre presente, benefico, è aiuto e sostegno, un punto di riferimento sicuro che non muta col passar del tempo, una presenza continua di salvezza per chi accetta questa Sua presenza. Un Dio incapace di imperfezioni e limiti ma un Padre 3 volte Santo ossia infinitamente Santo. In Abramo fissa la Sua discendenza. Sul Sinai conclude con lui un'Alleanza, in questi termini precisi: Israele, io - ti offro: aiuto, sostegno, protezione, una terra, una discendenza, e delle indicazioni per essere felice (i Comandamenti); ti chiedo: riconoscimento del mio ruolo, obbedienza, fedeltà, osservanza della Legge, astensione da ogni mescolanza con inconsistenti divinità straniere, fiducia e collaborazione.

Se sarai fedele, avrai prosperità e sarai felice. È un’alleanza che impegna Lui ma anche noi nonostante la storia ci mostri le nostre infedeltà, lui è sempre stato fedele, ci ha sempre amato perdonato con profonda bontà, i profeti Osea, Geremia, Isaia narrano di Dio come uno sposo capace di fedeltà e di quell’amorevole e indissolubile tenerezza, tradire questo amore è peccato sia di Idolatria che di Adulterio. Il popolo di Israele di cui noi oggi siamo la prosecuzione e’ un popolo che Dio ha scelto, non è un frutto di una generazione ma di una elezione. E’ Padre, generatore di vita di un popolo che ama e che insegna a camminare tenendolo per mano di generazione in generazione.

Ad Abramo il Signore disse:                  “ Vattene dalla tua terra,

dalla tua parentela e dalla casa di tuo Padre,

verso la terra che io ti indicherò.

Farò di te una grande nazione e ti benedirò

 Il Signore ci chiede di seguirlo e di amarlo più di ogni altra cosa o persona. Lui è padre ma anche madre che consola, sicura speranza e rifugio, pieno di sentimenti di bontà, tenerezza, pazienza, comprensione e perdono, una madre che rasserena. Il compimento delle Sacre scritture lo vediamo nel nuovo testamento. Nell’Antico è nascosto il Nuovo e nel nuovo si rende Palese l’Antico. Il nuovo testamento rivela l’amore di Gesù pronto a morire per offrirci la vita, ecco dove arriva l’amore di un padre a mettersi da parte per il bene di un figlio. un padre che nulla vuole se non che il figlio non venga privato della libertà. Dio si è manifestato in Gesù per   dimostraci il Suo amore totale e incondizionato verso noi, con lui non siamo più schiavi obbedienti di una legge per timore, ma viviamo nell’amore di figli potendo guardare serenamente i nostri errori certi della misericordia di un Padre che ci viene incontro ad asciugare le lacrime dettate dal nostro errore. Il volto del Padre è reso visibile in Gesù Cristo. Nel battesimo di Gesù possiamo vedere la Santissima trinità: il Verbo(Dio), che si fa carne in Gesù Cristo e ciò che li unisce è l’amore tra il Padre e il Figlio cioè lo Spirito Santo. Più conosciamo Gesù e la Sua sapienza e più conosciamo l’amore che il Padre nutre per ognuno di noi, e nella gratitudine che questo sentimento di amore conosce il suo apice, Nel figlio diventiamo figli adottivi di un padre che ci ha amato fino a rendere in Lui visibile il riscatto per la vita eterna ecco perché’ anche noi possiamo rivolgerci a lui riconoscendoci fratelli e chiamandolo Padre nostro o con la stessa tenerezza che un bimbo ebreo chiama il suo Papino (Abbà). Questo amore eleva la nostra natura da una condizione limitata ad una vita superiore, divina. Ci rende una sola cosa con Gesù, ci genera di nuovo, ci fa figli suoi, ci rende partecipi della sua vita divina. Quando nasciamo siamo sue creature perché’ nel seme generato è Dio che ci dà la vita ma ci rispetta così tanto da darci la libertà di entrare a far parte della sua famiglia attraverso la seconda rigenerazione che abbiamo con l’adesione al battesimo. Saremo sempre figli dei nostri genitori ed insieme creature di Dio, perché è Dio che ci apre i cieli cioè a quell’anima intelligente che ci permette di comprendere le cose soprannaturali. L’uomo sin dalla nascita conserva una grande dignità ma col Battesimo ci immergiamo in una vita rigenerativa, non è voluta dal volere di uomo, né da sangue, né da carne, né è imposta a nessuno ma è liberamente offerta e ci immerge nel mistero della morte e resurrezione di Cristo Salvatore e opera quella realtà, per la quale diventiamo fratelli, colmano la distanza tra l’essere finito e l’essere infinito. Nella realtà sensibile è difficile passare da ciò che è visibile a ciò che invisibili ecco perché la Chiesa quale Regno di Dio, racchiude realtà divine, basti pensare all’Eucarestia cosa c’è di più umile di un pezzetto di ostia, segno della presenza del Corpo di Gesù eppure nella nostra realtà fragile e mortale possediamo questa immortalità che vedremo più chiaramente nella massima rivelazione ossia nella via eterna. Il Padre fa di noi dei figli. Nati da un padre e da una madre che ci hanno trasmesso le realtà terrene, nel Battesimo siamo rinati a figli delle realtà celesti.  Ora siamo come un feto immaturo, a mezza strada:

 - fra il passato e il futuro, -

 fra le cose che vediamo e quelle che non vediamo, -

 fra il bene e il male, -

 fra il rischio di accogliere il dono divino o di rifiutarlo, in una lotta perenne con le nostre cattive tendenze e con l'azione di Satana che ci ostacola, con ogni mezzo, nel nostro cammino incontro alla piena e perfetta figliolanza divina. Non siamo in una posizione né facile né comoda, e per questo soffriamo: - di incompletezza, perché non abbiamo ancora la maturità definitiva; di cecità, perché siamo chiusi nelle cose, non vediamo ancora con chiarezza; di nostalgia, perché abbiamo già nelle vene il sangue di Dio e siamo costretti a sopportare il sangue turbolento e malato di uomini.'

L'UNICO PROGETTO DEL PADRE è Farci suoi figli in senso morale, cioè nel senso di una maturità che ci porta a essere figli in senso completo. La nostra storia terrena non è che la storia della nostra gestazione come figli di Dio. Siamo come il feto nel seno della mamma. Noi amiamo il ventre della mamma, ma ne siamo usciti appena abbiamo potuto. Non basta essere concepiti: bisogna uscire dal seno materno, crescere, svilupparsi in piena autonomia personale. Il cosmo e la storia sono come il seno immenso e molteplice dove si compie questa nostra gestazione, e tutto è predisposto per questo. E se l'unico progetto divino è quello di farci pienamente figli, è bello pensare alla presenza di un Padre che lavora per noi e con noi per realizzare il suo progetto. Il progetto non è finito ed il lavoro non è ancora compiuto: se fosse finito, sarebbe già la fine del mondo! E infatti "tutta la creazione, anelando alla gloriosa manifestazione dei figli di Dio, geme e soffre nei dolori del parto" (cf. Rm 8, 19-22). Chi vive nella fede, è consapevole di stare realizzando in se stesso un piano superiore e a lieto fine. - Sa di dover andare oltre le realtà contingenti e sensibili. - Sa che il meglio per lui è nel futuro. Sa che il domani sarà meglio dell'oggi. - Sa che il Padre lo sta attirando, attraverso vie misteriose e spesso dolorose, verso una maturità che sarà piena solo quando riuscirà a vivere totalmente la sua realtà di figlio. E quando, divenuto pienamente figlio, lascerà questa terra nella quale è stato generato, potrà dire con entusiasmo: finalmente! Finalmente sono giunto a casa, da mio Padre!

Soffermiamoci per un istante a guardare un girasole



Il termine girasole proviene dal termine composto di helianthus ossia helios e athos ossia significa “fiore sole” infatti al mattino i suoi fiori sono rivolti a est, il punto cardinale da cui sorge il Sole, durante il giorno si muovono seguendone il tracciato nel cielo e al tramonto sono rivolti a ovest; nel corso della notte ritornano nella posizione iniziale. Come sia possibile che i girasoli riescano a muoversi seguendo il sole pur non avendo muscoli e come mai smettano di farlo una volta aver finito di crescere rimane un mistero ed in questo fiore che si muove attraverso la luce possiamo scorgere il cristiano sempre attento a cercare il Padre e diventare il Suo vero capolavoro riconoscendo che nulla posso se non in colui che mi dà forza. Dio ci dona la provvidenza ossia efficace sostegno che il Padre dona all’uomo per raggiungere lo scopo per cui è stato creato. A livello cosmico la provvidenza viene esercitata dai fenomeni atmosferici. Gesù nel Vangelo ci insegna a fidarci di questa provvidenza, con parole semplici e comprensibili, partendo dalla considerazione di ciò che tutti vedono e sentono. Egli conosce i problemi della gente comune in mezzo alla quale vive, e che è in continuo assillo: per il cibo, per le bevande, per il vestito, per la sofferenza personale e familiare, per le miserie fisiche della vecchiaia, per la morte, per le ingiustizie a tutti i livelli... Gesù conduce la sua vita terrena in mezzo a persone inquiete, preoccupate, ribelli, polemiche, protese al raggiungimento di un futuro migliore. Ed è continuamente interpellato e contestato. Come si comporta? Con un atteggiamento di grande fiducia e di pieno abbandono alla volontà del Padre. Gesù è forte e sereno perché è consapevole di fare la volontà del Padre e perché è certo che nulla gli può accadere senza che lo sappia Lui! Poi dice: avete problemi? siete preoccupati per il futuro? volete spiegazioni? Non cercate risposte o soluzioni, ma semplicemente: guardate! Guardate come il Padre si comporta con gli esseri più umili e insignificanti, e state certi che farà altrettanto con voi, che valete ben più di loro! Di conseguenza: - niente paura: a voi pensa il Padre!; - vivete alla giornata: basta a ciascun giorno il suo affanno!; - non fate confronti: sforzatevi di amare i nemici, perché anch'essi sono amati e assistiti dal Padre!; - preoccupatevi di cercare come prima cosa il regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta! La Provvidenza quindi, secondo Gesù, non la si insegna, ma la si vede nel tessuto ordinario e straordinario delle cose che sono disegnate dalla mano sapiente e amorevole del Padre. È un disegno di amore che solo chi ha l'occhio puro e il cuore buono riesce a capire! La provvidenza è l’aiuto che il Padre dona ad ogni uomo per aiutarlo a raggiungere lo scopo che Egli ha fissato per lui, ci invita a collaborare per raggiungere le sue vie per poterlo incontrare.  Egli chiede di più a coloro che lo seguono perché possano attingere la forza in Lui, non è un’ingiustizia ma un modo per fidelizzarci e rimanere sempre in lui infatti San Paolo scrive Perché non montassi in superbia mi è stata messa una spina nella carne, pregai e ad un certo punto mi disse “Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. La storia dell’antico popolo di Dio si può definire una peculiare esperienza della misericordia di Dio, a livello individuale e sociale. Nonostante i solenni giuramenti, le tante promesse i vicendevoli sacrifici il popolo dell’alleanza è stato sempre un popolo infedele, il braccio di Dio non si è mai ritirato dimostrandosi sempre ricco di comprensione e compassione e perdono. Padre ricco di misericordia, pieno di tenerezza e di grazia, lento all’ira ma grande nell’amore. Per quanto grande sia il peccato, la misericordia divina lo supera infinitamente. Gesù e la vera incarnazione della misericordia manifestando il suo amore per i piccoli e per i poveri, per gli ammalati e per gli esclusi, aprendosi alla sofferenza dei fratelli, con la vita e le parole ha dimostrato che Dio è un padre che ha cura dei suoi figli. Il Perdono per Gesù è una festa, Dio si rallegra della pecorella ritrovata piu’ che delle pecorelle rimaste nel recinto.

 Nella parabola del padre misericordioso è racchiuso tutto il messaggio evangelico della misericordia del perdono e dell’accoglienza lo vediamo insieme È la parabola che, esprime il termine in modo estremamente chiaro –

 Inizia col dramma del figlio che abbandona il padre (cf. Le 15, 12-19);

1. Voglio andarmene di casa! un figlio che ha la fortuna di avere una casa e un padre, e quindi ciò che di meglio si possa desiderare, ma che decide di andare, forse suggestionato e traviato dagli amici. Vuole lasciare la sua casa, per essere pienamente libero senza controllo alcuno; perché vuole divertirsi senza alcun freno; perché vuole disporre dei beni "che gli spettano" senza dover rendere conto a nessuno; perché non può più sopportare l'ambiente di casa! Il padre lo guarda angosciato, ma non lo maledice, non lo maltratta, e neppure gli impedisce con la forza di realizzare il suo folle disegno. Soffre in silenzio e piange lacrime amare! L'amore è tolleranza, resistenza, pazienza infinita. Dio è tutto questo... e non per un solo figlio insensato, ma per ogni uomo che decide di voltargli le spalle.

2. Il figlio non si lascia commuovere e mette in atto la sua decisione; "parte per un paese lontano e là sperpera, le sue ricchezze, vivendo da dissoluto". È inizialmente "felice", perché ha raggiunto il suo scopo. 3. Scoppia il dramma. Il denaro finisce, gli amici si dileguano, e si profila la disperazione. Avviene l'inevitabile: la fame, la solitudine, il tradimento dei compagni di baldoria, il disastro! - Lui, l'indipendente che rifiutava il padre, è obbligato a guadagnarsi il pane; - Lui, non abituato a "contare i soldi", deve umiliarsi a fare il garzone; Lui, il sensuale, il gaudente, lo sprecone, vorrebbe saziarsi con il cibo per i porci, ma non gli è concesso. Dio conduce dolcemente l'errante a "toccare con mano" la sua povertà e lo fa con infinita pazienza, rispettando i tempi e la libertà di ciascuno.

4. Incominciano i ripensamenti e i pentimenti. "Ma come posso continuare a vivere così? Non ho più mezzi per tirare avanti e non ho più alcuna dignità per presentarmi a nessuno!... Com'era bella la mia casa! Come mi sentivo amato, rispettato, servito!... Quanta nostalgia, quanto rimpianto!". affiora un pensiero di speranza, anzi una certezza: "tutti mi hanno abbandonato, tutti mi possono abbandonare... ma mio padre no! Non è possibile che lui mi abbia dimenticato! Non è possibile che lui non mi aspetti ancora!... Io l'ho tradito e abbandonato, ma lui non può tradirmi o abbandonarmi! Non è possibile... perché lui è mio padre!" L'amore di Dio, creativo e inesauribile, aiuta a riflettere e a prendere decisioni fino ad allora impensabili!

5. Decide di tornare a casa! La decisione avviene dopo molti ripensamenti ed è determinata dalla nostalgia di casa e dalla certezza di ritrovarvi un padre buono, accondiscendente, comprensivo oltre ogni limite. È umiliante ripercorrere quella strada che ha conosciuto la sua fuga! Mille timori lo assalgono: mio padre riconoscerà in questa larva di uomo suo figlio? Mi accoglierà, mi aprirà la porta (almeno quella di servizio!)? Mi perdonerà? Eccolo: è già sulla porta! Lo attende l'esperienza di un perdono che non avrebbe mai potuto immaginare! Il perdono, nel cuore del Padre celeste, è presente fin dall'inizio di ogni traviamento,ma non può raggiungere il figlio se questi non decide, in piena libertà, di ritornare a casa!

 6. Il padre lo attende con impazienza. Il padre non ha mai perduto la speranza! Era sicuro che le tristi esperienze della lontananza lo avrebbero maturato! E’ commosso, gli corre incontro e lo bacia". Nulla si frappone a questo abbraccio tanto atteso! Nulla di più bello di questo bacio tanto amorevole! Dio è sempre in attesa del peccatore. Conta i passi del suo ritorno. E quando arriva, non si comporta come un papà offeso e ferito, desideroso di rivalsa, e non è vendicativo, perché ama soltanto. Il peccato ha già in sé la sua punizione; perché infierire ancora? Il padre bacia il figlio: il bacio è il segno del perdono pieno, soprattutto se scambiato in silenzio, senza disturbare l'intima e traboccante effusione del cuore!

7. Il figlio si confessa: "Padre, ho peccato contro il Cielo e contro dite...". Mette Dio prima del Padre! Ha già capito che il tradimento nei confronti del padre è una cosa orribile davanti a Dio! Non si sente degno davanti al Padre celeste e a quello terreno.

 8. Il padre lo perdona senza esitazione e senza attese. Non vuol perdere tempo! Vuole fare festa! Vuole rivestire il figlio degli abiti belli, degli abiti festivi. Vuole gli abiti della Pasqua, quello delle nozze. Vuole una festa bella, ricca, con la presenza di tutti i componenti della famiglia. Occorre che tutto sia come prima, figlio come prima, erede come prima, responsabile come prima. È un padre impazzito per la felicità, come il protagonista della Parabola parallela del pastore che ha ritrovato la pecora smarrita. È pazzo di gioia perché "ci sarà più festa in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti"

. 9. Incominciano a far festa. È una festa grande, anche se rattristata dal rifiuto del fratello maggiore. La festa è tanto più sentita quanto meno immaginata prima: chi poteva pensarla? È la festa della vita: il figlio era morto ed è tornato in vita. È la festa del grande ritorno: era perduto ed è stato ritrovato. Era morto, dato per morto da tutti. Ma non per il cuore del Padre, che non si dava pace per lui e lo inseguiva, con coraggio e con fiducia. Dio, nonostante tutto, è il Padre insostituibile e l'amico fedele. Nella parabola del Padre è celebrata la vittoria dell'amore misericordioso. La vittoria di un Padre che è anche Madre, perché, ovviamente, quella figura è onnicomprensiva di un infinito amore paterno e materno insieme. Scrive il Card. Biffi: «il Padre è l'unico che resta alla fine. Prima vogliamo provare tutto, ci rivolgiamo a tutti, tentando di sfuggirgli in qualche modo; poi cadiamo fra le sue braccia... Lo lasciamo per ultimo, perché possediamo la certezza di ritrovarlo, quando ogni altra speranza sarà andata in fumo». Urge però rispondere ad una domanda che sorge spontanea se Dio è tutto ciò che c’è di bene e di provvidenziale perché esiste la sofferenza? Se Dio ci è vicino perché la nostra percezione lo fa sentire così assente, lontano ed indifferente? Nella sofferenza narrata in Giobbe interviene Dio affermando che l’uomo non ha diritto di chiedergli il perché dei mali che lo colpiscono e con umiltà Giobbe accetta senza comprendere a pieno, in Tobia invece troviamo una risposta velata “perché era giusto era necessario che subisse grandi prove “ma è con Gesù che il mistero viene ad assumere una sua luce piena e convincente. È Lui a rivelarci l'infinito amore del Padre che proprio nella sofferenza e attraverso la sofferenza, realizza i suoi progetti. Gesù sana ogni tipo di infermità attraverso il rispetto, la disponibilità, con accoglienza, e amore, attraverso i suoi miracoli dimostra di essere venuto per salvare gli uomini ma non per guarirli perché la salute fisica può entrare nel piano della salvezza globale dell’uomo ma resta un aspetto limitato e transitorio. Gesù si presenta come cura che aiuta il sofferente a comprendere il significato e il valore del dolore e sollevarlo dalla croce che porta, dà senso alla sofferenza valorizzandola, proprio come lui, noi non siamo sottratti alla Croce fisica o morale e, come noi fu tentato , messo alla prova, addolorato e tribolato ma vinse il mondo nella visione della vita eterna ed in questa prospettiva che abbiamo la nostra consolazione e se vero che nel nostro obbiettivo troviamo già un senso è anche vero che come dice il Manzoni “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per procurarne loro una più certa e più grande” . Sul piano soprannaturale ogni battezzato ha in sé la grazia di Dio, tutti devono offrire il loro contributo di amore e di sofferenza per completare con la propria sofferenza la passione di Cristo rendendo perfetto e maturo l’intero corpo che è la Chiesa. Sul piano Naturale invece la sofferenza dell’individuo conduce alla scoperta di noi stessi; ci matura; affina ed eleva lo spirito; abilita alla comprensione degli altri; espia i nostri errori e peccati; è il messaggero e l'alleato di Dio. Il dolore dell’uomo in questa terra è anche denominato “beatitudini naturali” che ci aiutano a capire la razionalità e l’utilità del dolore e ritrovare sé stessi, la propria umanità, la propria dignità per offrirla al Padre. Gesù prega sempre e offre tutto al Padre, spesso si ritira in disparte ed in solitudine per pregare, così come si affida prima di compiere azioni salvifiche nel momento della sua missione, prega a voce alta per chiedere o per ringraziarlo, usa brevi preghiere o espressioni dei Salmi dimostrando di essere in stretta comunione col Padre ed accompagna la preghiera a gesti significativi: riconciliati col fratello, prima di presentare la tua offerta (cf. Mt 5, 23-24); ama i nemici e prega per i tuoi persecutori (cf. Mt 5, 44-45); prega il Padre "nel segreto", senza sprecare parole (cf. Mt 6, 6-7); perdona dal profondo del cuore (cf. Mt 6, 14-15); purifica il tuo cuore, nella ricerca del Regno (cf. Mt 6, 21. 25.33). «Questa conversione è orientata al Padre: è filiale». Il cuore, deciso a convertirsi, incomincia a pregare con adesione filiale a Dio e ciò diventa possibile perché lui diventa la nostra Porta dove poter bussare ed ottenere l’accesso alla piena adesione alla volontà divina affinché possiamo attraverso lo Spirito di Verità raggiungere la gioia piena. L’importanza della preghiera la ritroviamo nell’amico inopportuno (cf. Le lì, 5-13), che insegna l’insistenza con cui dobbiamo pregare. A chi prega così il Padre assicura di dare "tutto ciò di cui ha bisogno", e specialmente "il dono dello Spirito Santo". La vedova inopportuna, ci insegna la pazienza della fede, anche quando essa sembra inascoltata e inutile (cf. Le 18, 1-8). Il fariseo e il pubblicano, insegna l'umiltà del cuore, che spesso porta l'orante a dire: "O Dio, abbi pietà di me" (cf. Le 18, 9-14). Ogni richiesta espressa al padre con fede e perseveranza sarà esaudita (Quale padre tra voi se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono» (Le 11, 9-13).  Se Ciò che desideriamo non ci viene accordato sarà perché la richiesta è immatura o non è per il nostro vero bene. La preghiera invece è: - un chiedere al Padre l'aiuto per corrispondere con amore al suo piano provvidenziale su di noi: "sia fatta la tua volontà e non la mia" (cf. Me 14, 36); - un uniformarci intimamente alla volontà divina; con una collaborazione rispettosa verso la sua decisione di volerci salvare e aiutare anche in dipendenza della preghiera. Dio ha voluto far dipendere la realizzazione di determinate cose dal nostro desiderio e quindi dalla nostra preghiera. Ed è per questo che lo Spirito Santo prega in noi, suggerendoci ciò che è meglio chiedere per il nostro vero bene. La preghiera diventa così una risposta alla grazia divina: preghiamo perché Dio ci dà la grazia di pregare! Con essa diventiamo corresponsabili del Progetto del Padre che ci vuole protagonisti liberi e attivi. È un progetto: - che onora Dio, e non delude i suoi diritti; che onora noi, che ci adeguiamo liberamente con la preghiera ai suoi voleri. Il "Padre nostro" è così "la Preghiera dei figli di Dio"; la preghiera di coloro che, nel Figlio e col Figlio, hanno un audace, confidenziale, gioioso, filiale rapporto, sostenuto dalla certezza di essere amati. Tutto è stato detto fin qui per illustrare la mia identità: sono il tuo Creatore e il tuo Signore, ma soprattutto sono tuo Padre. E mi piacerebbe parlarti cosi:

Caro Figlio/a,

sono il tuo creatore e il tuo Signore ma soprattutto sono tuo Padre, avvicinati e chiamami, non avere paura di me, ti conosco più di quanto tu possa conoscere te stesso, sono tuo Padre e ho creato io te , così come sei perché ti volevo come sei e ti amo con un amore tenero, dolce, attento, misericordioso, forte …. Se solo sapessi l’intensità del mio amore per te, non avresti paura e non paragoneresti a nessun amore che tu conosci ma con estrema fiducia ti getteresti perdutamente in questo amore e non ti allontaneresti da me, cercami…. Nel segreto della tua camera, nell’intimità del tuo cuore. Fai tacere le voci dispersive dell’orgoglio, della ribellione, dell’aggressività, degli affanni indebiti, dagli sterili svaghi, da ogni superficialità e concentrati sulla parola Padre. Ripeti gustando il nome “Padre” “Padre mio, Dio Mio, ” Apri la bibbia e leggi di me, leggi cosa ti dico attraverso le parole scritte, se presti attenzione sono attuali oggi come allora, 365 volte ti dico non temere, sono morto per darti la vita e ti seguo da quassù, intervengo nella tua vita perché il tuo bene mi è caro, Parlami come se ti fossi accanto, raccontami la tua giornata , parlami dei tuoi progetti, ho bisogno di ascoltare la tua voce, Non aver paura del tuo passato, qualunque esso sia , qualsiasi cosa sia successo lo ripareremo insieme, io sono qui e vorrei solo che tu mi lasciassi entrare . Accettami , cercami nel silenzio, nella preghiera, nel confessione, tutto sarà più chiaro se ti affidi alla mia bontà e alla mia misericordia, attraverso la provvidenza nel bisogno sperimenti oggi e sperimenterai domani la mia presenza , Il Vangelo ti testimonia la mia presenza provvidenziale e ti assicura che mai ti mancherà se starai con me, Interpellami nel dolore e non lasciare che la disperazione ti allontani da me seppur nella prova e nella salita rimani con me, nulla è più prezioso nella tua vita della sofferenza accettata con umiltà, pazienza e offerta per amore, non escludermi in quel momento, nulla avviene per caso, anche quel momento di prova è voluta da me o permessa solo per il tuo bene, questa prova è per renderti partecipe della Croce di mio figlio Gesù , impersonati nella figura del Cireneo che per un tratto mi aiuta a portare la croce, offrimi quella sofferenza come partecipazione ai miei patimenti ,ogni croce è proporzionata al peso che poi portare, chi soffre con me vince chi mi rifiuta è solo da compiangere, non chiedermi il perché della croce, ma fai un atto di affidamento dicendomi : “Padre tu sai” e cadrà la pace in te. Non aver paura della morte, sarò io ad accoglierti con un immenso amore e ti porterò presso la tua dimora e finalmente ti sarà chiaro il mio amore per te e tutto ciò che hai vissuto avrà un senso, per questo momento sei stato creato, in vista di questo avrai sofferto, avrai combattuto. Pensa al nostro incontro nella luce, vivi guardando questa gioia senza fine. Accetta con fede e senza pretese ciò che accade in vista del dopo. Fidati sarà più semplice di quello che immagini. Accetta questo amore, la pace e i doni che ne susseguiranno Non fanno così i Padri? Sei mio figlio ed in quanto tale sei oggetto del mio amore personale, non sei venuto al mondo per caso, ma sei un granellino unico e insostituibile del mio capolavoro. Da te, piccolo tassello dipende la riuscita della salvezza e la felicità dell’intero universo, ti chiedo solo di partecipare a questo progetto con fiducia e amore, una pietra viva della grande “cattedrale” Non c’è al mondo una persona come te, sei unica e irripetibile… accettati con gioia, amati, non invidiare nessuno. Ama il tuo corpo, il tuo carattere, la tua sensibilità, lavora su te, non avere paura di te stesso fa leva sul positivo e accantona il negativo, abbandonati a me e diventa la mia immagine vivente, non intralciare il mio disegno, lasciati modellare come se fossi creta, abbandonati incondizionatamente, ciecamente e serenamente. Cerca la forza in me, nel mio abbraccio trovi tutta la forza che ne hai bisogno. Vorrei essere il tuo confidente, voglio instaurare con te un rapporto leale, confidenziale fedele. Non isolarti ma mettiti in gioco, io non ti deludo, non ti tradisco, non ti abbandono, non mi stanco, vivi per me, valorizza la tua vita. Siamo uno e siamo tre: Dio Padre, Gesù figlio e lo Spirito Santo che è il datore di ogni dono. Non di meno importante la madre genitrice di mio figlio: Maria di Nazareth la madre per eccellenza. abbandonati con questa preghiera:

"Padre mio, mi abbandono a Te.

Fa' di me quello che ti piace.

Sono pronto a tutto, accetto tutto,

perché la tua volontà si compia in me, e in tutte le creature.

Non desidero niente altro, mio Dio.

te la dono, mio Dio, con tutto l'amore del mio cuore, perché ti amo.

Ed è per me un'esigenza d'amore il donarmi,

il rimettermi nelle tue mani senza misura con una confidenza infinita,

poiché tu sei il Padre mio".'

Accoglimi nella vita dei tuoi fratelli, fatti prossimo per amore mio, servimi e amami nel volto dei tuoi fratelli perché se, come uomo appartieni alla comunità civile come mio figlio fai parte di un corpo visibile che è la chiesa, hai bisogno di offrirti all’altro confrontandoti e integrandoti col tuo prossimo. Vinci le tue timidezze, le tue riserve, perdona come me  sempre, tutto e tutti, riconosci i tuoi errori. Vivi in pace in te stesso e con te stesso, la tua massima ispirazione sia l’equilibrio fisico e psichico, ordine interiore, rispetto della gerarchia dei valori, volontà di amare tutti e perdonare sempre, riconoscere il valore degli altri, accettare serenamente se stessi, rinunciare ad ogni forma di invidia, di rivalità e di critica, adesione serena alla volontà del padre con fede e ottimismo. La pace è il Dono di Gesù nello Spirito Santo. Esercitati nel dire la verità : nel parlare, nel giudicare, nel riferire, Sii libero di agire e rispettare gli altri Dà sempre a ciascuno ciò che gli spetta. Sii quel tocco di bontà e di cortesia che rende più ricco ogni rapporto e gradito ogni servizio.

Tuo Dio

 

 Tratto dal libro Chiamami Padre di Novello Pederzini

martedì 11 maggio 2021

San Giuseppe

 

In questo mese di Maggio sento il dovere e la necessità di lasciare da parte ogni argomento per porre i riflettori sui la figura di un uomo che oltre la nostra Mamma celeste ha piu’ di tutti amato il nostro Gesu: San Giuseppe. E’ una figura dove ognuno di noi puo’ rispecchiarsi. Un laico puo’ rispecchiarsi come un genitore e un sacerdote come Padre Spirituale, un lavoratore, un immigrato, un emigrato, e tantissime altre figure.  Gesu’ e’  chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».[1]

 Gli  Evangelisti Matteo e Luca seppur  raccontano poco in verità sono gli apostoli che piu’ di tutti ce lo fanno conoscere.

Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo, per  evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica»,[2] il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori”[3] e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore».[4] Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».[5]

San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».[8]

Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]

In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.[10]

Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica  fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».[6] Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine. Come possiamo assumere la figura allora di tale Santo.

1. Padre amato

San Giuseppe, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.[7]

La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).

Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.

2. Padre nella tenerezza

Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).

Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).

Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza,[11] che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).

La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9).

Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza.[12]

Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola (cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24). Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.

3. Padre nell’obbedienza

Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà.[13] Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente»,[14] ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.  Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).

Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23).

L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.

San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).[15]

In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.

Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).

Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria[16] e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).

Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».[17]

4. Padre nell’accoglienza

Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]

Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.

La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).

Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.

La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.

Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).

Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)».[19] In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.

Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.

L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).

5. Padre dal coraggio creativo

Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.

Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).

A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.

Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare.

Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.

Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti  gli immigrati , per tutti  coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.

Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.[21]

Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».[22]

Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria.[23] Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.

Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre.

6. Padre lavoratore

Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.

In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.

Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?

La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!

7. Padre nell’ombra

Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre,[24] ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.[25]

Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.

Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (4,19).

Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.

La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.

La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).

Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.

Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.

A lui rivolgiamo la nostra preghiera:

Salve, custode del Redentore,
e sposo della Vergine Maria.
A te Dio affidò il suo Figlio;
in te Maria ripose la sua fiducia;
con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male. Amen.

 

Tratto vRoma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria, dell’anno 2020, .

in aggiunta a questo articolo desidero che leggiate anche la lettera che il Santo Padre ha scritto in vista dell’anno in corso dedicato a San Giuseppe. Spero che voi lo gradiate.

Cari Fratelli e sorelle

L’ 8 dicembre 2020, in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale Patrono della Chiesa universale, è iniziato lo speciale Anno a lui dedicato, allo scopo di «accrescere l’amore verso questo grande Santo». Si tratta infatti di una figura straordinaria, al tempo stesso «tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi». San Giuseppe non strabiliava, non era dotato di carismi particolari, non appariva speciale agli occhi di chi lo incontrava. Non era famoso e nemmeno si faceva notare: i Vangeli non riportano nemmeno una sua parola. Eppure, attraverso la sua vita ordinaria, ha realizzato qualcosa di straordinario agli occhi di Dio.

Dio vede il cuore , e in San Giuseppe ha riconosciuto un cuore di padre, capace di dare e generare vita nella quotidianità. A questo tendono le vocazioni: a generare e rigenerare vite ogni giorno. Il Signore desidera plasmare cuori di padri, cuori di madri: cuori aperti, capaci di grandi slanci, generosi nel donarsi, compassionevoli nel consolare le angosce e saldi per rafforzare le speranze. Di questo hanno bisogno il sacerdozio e la vita consacrata, oggi in modo particolare, in tempi segnati da fragilità e sofferenze dovute anche alla pandemia, che ha originato incertezze e paure circa il futuro e il senso stesso della vita. San Giuseppe ci viene incontro con la sua mitezza, da Santo della porta accanto; al contempo la sua forte testimonianza può orientarci nel cammino.

San Giuseppe ci suggerisce tre parole-chiave per la vocazione di ciascuno. La prima è sogno. Tutti nella vita sognano di realizzarsi. Ed è giusto nutrire grandi attese, aspettative alte che traguardi effimeri – come il successo, il denaro e il divertimento – non riescono ad appagare. In effetti, se chiedessimo alle persone di esprimere in una sola parola il sogno della vita, non sarebbe difficile immaginare la risposta: “amore”. È l’amore a dare senso alla vita, perché ne rivela il mistero. La vita, infatti, si ha solo se si , si possiede davvero solo se si dona pienamente. San Giuseppe ha molto da dirci in proposito, perché, attraverso i sogni che Dio gli ha ispirato, ha fatto della sua esistenza un dono.

I Vangeli narrano quattro sogni divini e, ma non facili da accogliere. Dopo ciascun sogno Giuseppe dovette cambiare i suoi piani e mettersi in gioco, sacrificando i propri progetti per assecondare quelli misteriosi di Dio. Egli si fidò fino in fondo. Possiamo però chiederci: “Che cos’era un sogno notturno per riporvi tanta fiducia?”. Per quanto anticamente vi si prestasse parecchia attenzione, era pur sempre poca cosa di fronte alla realtà concreta della vita. Eppure San Giuseppe si lasciò guidare dai sogni senza esitare. Perché? Perché il suo cuore era orientato a Dio, era già disposto verso di Lui. Al suo vigile “orecchio interiore” bastava un piccolo cenno per riconoscerne la voce. Ci vuole tanto discernimento ma Dio parla ad ognuno di noi come una brezza soave ,il Padre Nostro, non ama rivelarsi in modo spettacolare, forzando la nostra libertà. Egli ci trasmette i suoi progetti con mitezza; non ci folgora con visioni splendenti, ma si rivolge con delicatezza alla nostra interiorità, facendosi intimo a noi e parlandoci attraverso i nostri pensieri e i nostri sentimenti. E così, come fece con San Giuseppe, ci propone traguardi alti e sorprendenti.

I sogni portarono infatti Giuseppe dentro avventure che mai avrebbe immaginato. Il primo ne destabilizzò il fidanzamento, ma lo rese padre del Messia; il secondo lo fece fuggire in Egitto, ma salvò la vita della sua famiglia. Dopo il terzo, che preannunciava il ritorno in patria, il quarto gli fece ancora cambiare i piani, riportandolo a Nazaret, proprio lì dove Gesù avrebbe iniziato l’annuncio del Regno di Dio. In tutti questi stravolgimenti il coraggio di seguire la volontà di Dio si rivelò dunque vincente. Così accade nella vocazione: la chiamata divina spinge sempre a uscire, a donarsi, ad andare oltre. Non c’è fede senza rischio. Solo abbandonandosi fiduciosamente alla grazia, mettendo da parte i propri programmi e le proprie comodità, si dice davvero “sì” a Dio. E ogni “sì” porta frutto, perché aderisce a un disegno più grande, di cui scorgiamo solo dei particolari, ma che l’Artista divino conosce e porta avanti, per fare di ogni vita un capolavoro. In questo senso San Giuseppe rappresenta un’icona esemplare dell’accoglienza dei progetti di Dio. La sua è però un’accoglienza attiva: mai rinunciatario o arrendevole, egli «non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo» (Lett. ap. Patris corde, 4). Possa egli aiutare tutti, soprattutto i giovani in discernimento, a realizzare i sogni di Dio per loro; possa egli ispirare l’intraprendenza coraggiosa di dire “sì” al Signore, che sempre sorprende e mai delude!

Una seconda parola segna l’itinerario di San Giuseppe e della vocazione: servizio. Dai Vangeli emerge come egli visse in tutto per gli altri e mai per sé stesso. Il Popolo santo di Dio lo chiama castissimo sposo, svelando con ciò la sua capacità di amare senza trattenere nulla per sé. Liberando l’amore da ogni possesso, si aprì infatti a un servizio ancora più fecondo: la sua cura amorevole ha attraversato le generazioni, la sua custodia premurosa lo ha reso patrono della Chiesa. È anche patrono della buona morte, lui che ha saputo incarnare il senso oblativo della vita. Il suo servizio e i suoi sacrifici sono stati possibili, però, solo perché sostenuti da un amore più grande: «Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione» (ibid., 7).

Il servizio, espressione concreta del dono di sé, non fu per San Giuseppe solo un alto ideale, ma divenne regola di vita quotidiana. Egli si diede da fare per trovare e adeguare un alloggio dove far nascere Gesù; si prodigò per difenderlo dalla furia di Erode organizzando un tempestivo viaggio in Egitto; fu lesto nel tornare a Gerusalemme alla ricerca di Gesù smarrito; mantenne la famiglia lavorando, anche in terra straniera. Si adattò, insomma, alle varie circostanze con l’atteggiamento di chi non si perde d’animo se la vita non va come vuole: con la disponibilità di chi vive per servire. Con questo spirito Giuseppe accolse i numerosi e spesso imprevisti viaggi della vita: da Nazaret a Betlemme per il censimento, poi in Egitto e ancora a Nazaret, e ogni anno a Gerusalemme, ben disposto ogni volta a venire incontro a circostanze nuove, senza lamentarsi di quel che capitava, pronto a dare una mano per aggiustare le situazioni. Si può dire che sia stato la mano protesa del Padre celeste verso il suo Figlio in terra. Non può dunque che essere modello per tutte le vocazioni, che a questo sono chiamate: a essere le mani operose del Padre per i suoi figli e le sue figlie.

Mi piace pensare allora a San Giuseppe, custode di Gesù e della Chiesa, come custode delle vocazioni. Dalla sua disponibilità a servire deriva infatti la sua cura nel custodire. «Si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre» (Mt 2,14), dice il Vangelo, segnalandone la prontezza e la dedizione per la famiglia. Non perse tempo ad arrovellarsi su ciò che non andava, per non sottrarne a chi gli era affidato. Questa cura attenta e premurosa è il segno di una vocazione riuscita. È la testimonianza di una vita toccata dall’amore di Dio. Che bell’esempio di vita cristiana offriamo quando non inseguiamo ostinatamente le nostre ambizioni e non ci lasciamo paralizzare dalle nostre nostalgie, ma ci prendiamo cura di quello che il Signore, mediante la Chiesa, ci affida! Allora Dio riversa il suo Spirito, la sua creatività, su di noi; e opera meraviglie, come in Giuseppe.

Oltre alla chiamata di Dio – che realizza i nostri sogni più grandi – e alla nostra risposta – che si attua nel servizio disponibile e nella cura premurosa –, c’è un terzo aspetto che attraversa la vita di San Giuseppe e la vocazione cristiana, scandendone la quotidianità: la fedeltà. Giuseppe è l’«uomo giusto» (Mt 1,19), che nel silenzio operoso di ogni giorno persevera nell’adesione a Dio e ai suoi piani. In un momento particolarmente difficile si mette a “considerare tutte le cose” (cfr v. 20). Medita, pondera: non si lascia dominare dalla fretta, non cede alla tentazione di prendere decisioni avventate, non asseconda l’istinto e non vive all’istante. Tutto coltiva nella pazienza. Sa che l’esistenza si edifica solo su una continua adesione alle grandi scelte. Ciò corrisponde alla laboriosità mansueta e costante con cui svolse l’umile mestiere di falegname (cfr Mt 13,55), per il quale non ispirò le cronache del tempo, ma la quotidianità di ogni padre, di ogni lavoratore, di ogni cristiano nei secoli. Perché la vocazione, come la vita, matura solo attraverso la fedeltà di ogni giorno.

Come si alimenta questa fedeltà? Alla luce della fedeltà di Dio. Le prime parole che San Giuseppe si sentì rivolgere in sogno furono l’invito a non avere paura, perché Dio è fedele alle sue promesse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20). Non temere: sono le parole che il Signore rivolge anche a te, cara sorella, e a te, caro fratello, quando, pur tra incertezze e titubanze, avverti come non più rimandabile il desiderio di donare la vita a Lui. Sono le parole che ti ripete quando, lì dove ti trovi, magari in mezzo a prove e incomprensioni, lotti per seguire ogni giorno la sua volontà. Sono le parole che riscopri quando, lungo il cammino della chiamata, ritorni al primo amore. Sono le parole che, come un ritornello, accompagnano chi dice sì a Dio con la vita come San Giuseppe: nella fedeltà di ogni giorno. Questa fedeltà è il segreto della gioia. Nella casa di Nazaret, dice un inno liturgico, c’era «una limpida gioia». Era la gioia quotidiana e trasparente della semplicità, la gioia che prova chi custodisce ciò che conta: la vicinanza fedele a Dio e al prossimo. Come sarebbe bello se la stessa atmosfera semplice e radiosa, sobria e speranzosa, permeasse i nostri seminari, i nostri istituti religiosi, le nostre case parrocchiali! È la gioia che auguro a voi, fratelli e sorelle che con generosità avete fatto di Dio il sogno della vita, per servirlo nei fratelli e nelle sorelle che vi sono affidati, attraverso una fedeltà che è già di per sé testimonianza, in un’epoca segnata da scelte passeggere ed emozioni che svaniscono senza lasciare la gioia. San Giuseppe, custode delle vocazioni, vi accompagni con cuore di padre!

Roma, San Giovanni in Laterano, 19 marzo 2021, Solennità di San Giuseppe

 Lettera del Santo Padre

Papa Francesco